I romanzi storici, ossia quelli la cui vicenda è ambientata in un più o meno distante passato, hanno di solito un notevole successo presso il pubblico. Essi garantiscono l’evasione dalla dimensione quotidiana, forniscono uno sfondo di grande carica suggestiva, mettono il lettore a diretto contatto con personaggi che è abituato a considerare distanti e quasi irraggiungibili e che ha conosciuto solo nella statica fissità che essi assumono in molti testi scolastici. Infine, se utilizzati come letture scolastiche, possono essere anche di grande aiuto per la comprensione di determinati periodi in quanto permettono al lettore di vivere la storia dall’interno anziché studiarla dall’esterno. Essi rappresentano però un’arma a doppio taglio, in quanto, se un romanzo storico è impostato correttamente, può rappresentare un’esperienza utile e perfino importante, se invece è impostato male può provocare dei guasti a volte irreparabili.
La cattiva impostazione di un romanzo storico non dipende, peraltro, soltanto dall’autore: in molti casi posizioni ritenute corrette dalla critica storica corrente diventano obsolete con il passare del tempo e con il progredire della ricerca. Altre volte, però, la scadente preparazione storica dell’autore o la sua errata impostazione ideologica sono direttamente responsabili di un risultato inaccettabile. Gli esempi sono numerosi.
Proprio mentre scriviamo queste note, esce a stampa un saggio di Sabatino Moscati intitolato Gli adoratori di Moloch, indagine su un celebre rito cartaginese. Il libro si propone di dimostrare che il sacrificio dei fanciulli nell’antica Cartagine non era un fatto comune e che comunque i tofet contenevano in gran parte fanciulli morti prematuramente per cause naturali. Il libro comunque si apre con un’ampia citazione del romanzo di Flaubert Salambò in cui è descritta, con tinte fosche e con espressioni di fortissima intensità, un sacrificio di fanciulli che dalle braccia di Moloch sono precipitati entro un braciere ardente per ore e ore, per una intera giornata. Questa ricostruzione flaubertiana ha influenzato fino a ora la mentalità corrente a proposito del terribile rito che vi è descritto e solo i recentissimi scavi di Tharros, Cartagine, Monte Sirai, Sulcis, hanno dimostrato che si trattava di un fatto raro e probabilmente eccezionale. È questo il caso in cui il romanziere non ha colpe, se non eventualmente quella di aver indugiato molto su una certa scena, allo scopo di catturare l’attenzione dei lettori. Ci sono casi però in cui la narrativa ha avuto un peso determinante nella diffusione di pregiudizi privi di fondamento. Pensiamo a certa narrativa storica anglosassone come il Ben Hur di Lew Wallace, il Fabiola di Wiseman e altri di questo genere. In essi i Romani sono rappresentati come predoni sanguinari e insaziabili, mostri assetati di sangue, abissi di ogni corruzione e di ogni nequizia. Non vale qui la pena spendere parole per confutare tali stupidaggini; è interessante ricordare invece il successo straordinario che questi romanzi ebbero e la diffusione mondiale delle pellicole cinematografiche che da essi furono tratte.
Si può dire che a livello popolare l’immagine della romanità sia quella diffusa da questo tipo di romanzi e di film.
Per contro si è dato a volte il caso (per la verità molto raro) in cui un romanzo storico ha anticipato la ricerca scientifica nella riscoperta o nella rivalutazione di certi personaggi del passato. È il caso di Robert Graves che con il suo I Claudius già alla fine degli anni trenta restituiva dignità alla figura dell’imperatore Claudio, precedendo gli stessi storici professionisti.
Non c’è dubbio che la lettura di opere di questo genere rechi vantaggio al lettore, specialmente se ci riferiamo ai giovani che frequentano la scuola. Il docente che deve battersi contro la concorrenza formidabile del mezzo televisivo trova in una simile lettura un alleato prezioso. Lo studente infatti, catturato da una trama ben costruita, ma ambientata in una ricostruzione storica impeccabile, diventerà, quasi senza accorgersene, un esploratore del passato e delle radici più lontane della sua cultura. Vivrà la storia dall’interno anziché studiarla dall’esterno. In questo modo egli si accorgerà di quanto emozionante possa essere questo tipo di indagine, capirà che la parola scritta è mezzo più potente e sofisticato dell’immagine e potrà forse rendersi pronto per esperienze più impegnative di vera e propria ricerca.
A questo punto la battaglia contro l’omologazione imposta dal mezzo audiovisivo sarà stata ingaggiata, forse anche con qualche speranza di successo.