Il tema della continuità è entrato da qualche anno nel dibattito sulla scuola con particolare insistenza, delineandosi come area estremamente problematica e controversa per l’ampiezza e la complessità delle suggestioni tematiche, la molteplicità delle implicazione ma anche per le non poche ambiguità che il concetto veicola. La stessa ampiezza dell’aggettivazione che accompagna il termine continuità (si parla di continuità verticale, orizzontale, dinamica, educativa, didattica, istituzionale ecc.), se da un lato – come è stato sottolineato da qualcuno – testimonia lo sforzo di coglierne i numerosi risvolti – dall’altro non contribuisce a chiarirne i contorni semantici e, quel che più conta, a metterne a fuoco il nucleo concettuale. Il rischio maggiore del dibattito sulla continuità, come per numerosi altri temi particolarmente sensibili, è in effetti quello di oscillare tra divagazioni epistemologiche che chiamano in causa con ostinata ed ammirevole ripetitività i fondamenti e i presupposti di una teoria generale dell’educazione; polemiche che nascondono malcelate e preconcette posizioni ideologiche e commenti più o meno spiccioli e pertinenti su come condire quanto legislazione e normative, complice una onnipotente burocrazia, di volta in volta prescrivono in proposito.
In realtà l’iper-aggettivazione è strettamente connessa allo stesso sovrapporsi delle numerose implicazioni che investono problematiche di natura assai diversa, psicologica, pedagogico-didattica e giuridico-amministrativa che, attraverso una polarizzazione sull’asse della continuità-discontinuità, rimandano ai temi ben più ampi e significativi di sviluppo, di processo formativo e al significato che questi assumono rispetto ai compiti assegnati oggi alla scuola come sistema.
Il vero problema allora non è tanto stabilire se per principio nel processo educativo debba prevalere la continuità sulla discontinuità (o viceversa) e nemmeno quali siano di volta in volta le condizioni che consentono il raccordo e l’integrazione tra i diversi gradi dell’istruzione. Occorre una giustificazione plausibile e sensata della continuità, che prescinda da un lato da un’idea astratta di educazione e, dall’altro, non si esaurisca nella pur riconosciuta necessità di introdurre elementi di razionalità in un sistema, quello scolastico (sempre ammesso che di sistema si possa parlare), nel quale la discontinuità non è che uno dei tanti elementi di irrazionalità. Interrogarsi sul significato e sulla portata della continuità educativa equivale in primo luogo a riflettere sui compiti della scuola e sulle condizioni in cui tali compiti possono essere affrontati e perseguiti. Si può anche considerare questo problema su di un altro versante, quello relativo al significato dell’apprendere a scuola in società complesse e ad alto tasso di scolarizzazione come quelle odierne.
Indice
La continuità come ricomposizione del sistema formativo
Indubbiamente i sistemi di istruzione si caratterizzano oggi non solo per la complessità e l’eterogeneità degli obiettivi, che sembrano collegarsi all’idea stessa di società complessa, ma anche per la rapidità delle trasformazioni che intervengono nei processi formativi e nel contesto culturale e strumentale nel quale si trasmettono e si acquisiscono le conoscenze. Diversamente da quanto accadeva nel passato, non è possibile – e nemmeno desiderabile – definire o anche semplicemente ipotizzare per intero un percorso formativo sulla base di riferimenti descrittivi noti, sia per quanto riguarda le caratteristiche degli allievi che accedono all’istruzione, sia rispetto agli obiettivi formativi da selezionare e perseguire, ai contenuti dei curricoli da proporre e alle procedure didattiche da adottare.
Un simile quadro di certezze, sebbene abbia costituito a lungo uno dei tratti salienti dei sistemi scolastici tradizionali, è oggi evidentemente del tutto illusorio. Così come è illusorio, anche se in una prospettiva storica appare del tutto giustificato, interpretare la stessa idea di scolarizzazione unicamente o prevalentemente in termini di prolungamento della parte della vita destinata alla formazione; si tratta di qualcosa di più complesso, che occorre ridefinire continuamente in quanto assume caratteristiche diverse in funzione del variare del rapporto fra la scuola e la società e fra la scuola e le dinamiche dei processi culturali. Più precisamente, l’illusione consiste nel ritenere che per creare nuove dimensioni educative sia sufficiente prolungare la scolarizzazione, aggiungendo un segmento dopo l’altro.
Un’illusione che tuttavia trae origine ed è stata allo stesso tempo alimentata dalla ambiguità e dalla grande incertezza che sembrano aver caratterizzato le linee delle politiche scolastiche, recenti e meno recenti. Concentrate sulla necessità di espandere quantitativamente i sistemi per far fronte ad una sempre crescente domanda di istruzione, tali politiche non si sono accompagnate né ad un progetto formativo complessivo nei confronti delle giovani generazioni, né ad interventi efficaci, capaci cioè di modificare in maniera significativa gli stessi sistemi sul versante qualitativo. Una simile assenza diviene doppiamente grave se si pensa che proprio in concomitanza con l’espandersi dei processi di scolarizzazione ha assunto rilevanza la ricerca in campo psicologico e sociologico, tesa non solo a definire nuovi modelli teorici dello sviluppo ma anche a mettere in luce caratteri, difficoltà e patologie proprie di un’infanzia e di un’adolescenza prima di allora pressoché sconosciute.
Non vanno sottovalutate inoltre le contraddizioni in cui sembra dibattersi la famiglia in transizione verso strutture e modelli di vita diversi da quelli tradizionali. L’atteggiamento ambiguo dei genitori nei confronti della scuola si esprime sovente in contrastanti richieste nei suoi confronti: un inserimento sempre più precoce e più prolungato nelle strutture scolastiche in vista di una migliore integrazione sociale e culturale e di preparazione per la vita e, al tempo stesso, un intervento formativo, rispettoso dell’indole e delle scelte spontanee dei figli, nell’illusione di ridurre o almeno contenere le possibili frustrazioni connesse con l’insuccesso e con l’inevitabile impatto con una realtà sociale e professionale sempre più problematica.
In realtà ci troviamo di fronte non solo ad una scuola cresciuta in maniera disordinata e per strati sovrapposti, con finalità e logiche fra loro affatto coerenti, ma anche ad una popolazione scolastica che, rispecchiando in misura sempre crescente la variabilità dell’intera popolazione, si presenta con caratteristiche ed aspettative fortemente differenziate e soggette a continue trasformazioni, mentre un numero sempre maggiore di situazioni e di agenzie formative si aggiunge ai tradizionali canali formativi rappresentati dalla famiglia e dalla scuola. Tutto ciò comporta la necessità di riconsiderare in maniera più estesa ed articolata l’intero processo formativo nel quale devono trovare spazio sia le ragioni che provengono dalle conoscenze relative alle caratteristiche degli allievi e al loro sviluppo, sia quelle che definiscono i processi di alfabetizzazione culturale e che giustificano l’organizzazione dei curricoli nei vari segmenti delle scuola, sia, infine, quelle che si richiamano al cosiddetto ecosistema formativo, inteso in senso generale come rapporto ed interazione fra condizioni e caratteri propri della formazione scolastica e di quella extrascolastica.
Il tema della continuità esprime così una duplice esigenza di ricomposizione di un sistema formativo caratterizzato da grande complessità: da un lato quella connessa all’estendersi nel tempo dei percorsi formativi e che potremmo indicare come esigenza di continuità; dall’altro, quella che emerge dal riconoscimento della molteplicità delle condizioni personali, culturali ed istituzionali nelle quali si attua la stessa esperienza educativa e che può essere individuato come esigenza di integrazione. Si tratta di due esigenze complementari ed egualmente indispensabili per definire un sistema che eviti la frammentazione, la dispersione e la contraddittorietà del processo educativo e sia allo stesso tempo in grado di elaborare un’offerta formativa complessiva capace di promuovere l’apprendimento e favorire in modo equilibrato lo sviluppo personale, culturale e sociale degli allievi.
Il significato della continuità fra scuola materna e scuola elementare
Questa duplice esigenza che caratterizza l’intero percorso formativo, appare di grande rilevanza all’interno dei segmenti che definiscono la scuola di base e, fra questi, particolarmente stringente si presenta nel passaggio dalla scuola materna alla scuola elementare. Non è un caso infatti che il dibattito sulla continuità abbia registrato non solo il maggior numero di prese di posizione, ma anche le considerazioni più puntuali e le proposte più pertinenti e costruttive proprio in riferimento a questa porzione della scuola di base che ha nella scuola elementare il suo perno centrale, ma anche, come è noto, nella materna l’anello strutturalmente più debole.
Vale la pena ricordare però che alcune di queste proposte – forse le più significative – se hanno trovato punti alti di elaborazione, anche a livello ufficiale (per esempio nel documento a medio termine della “Commissione Fassino” del 1982 e nel testo definitivo della “Commissione dei 60” del 1983), hanno poi avuto un più modesto riscontro sia nei Programmi del 1985, sia negli Orientamenti del 1991, sia soprattutto nella legge del 1990 (legge 148/1990) e ancor più nei successivi interventi applicativi del 1992 (DM e CM n. 339 del 16 novembre 1992).
Qualcuno, forse non a torto, ha visto nel progressivo ridursi del significato e della portata della continuità, rispetto all’ampiezza del dibattito pedagogico, una sorta di strategia riduttiva, tesa più a confermare l’esistente che ad introdurre innovazioni significative nel sistema. In altre parole, attraverso la normativa si è trasferita la continuità da un livello di sistema – concetto quest’ultimo che rinvia per altro non tanto alla desegmentazione della scuola, quanto ad una sua diversa concezione e collocazione rispetto ai processi formativi – ad uno di sottosistema, come semplice pratica di momenti di raccordo tra singole unità scolastiche. Ciò significa, in pratica, parlare di continuità, ma nei fatti proporre interventi in una logica raccordativa che rimanda alla contiguità più che alla continuità, configurandosi quest’ultima come proposta globalmente debole, senza una reale possibilità di ridimensionare la solidificata segmentazione del nostro sistema scolastico. Il concetto di contiguità non implica infatti necessariamente quello di continuità, ma più semplicemente quello di vicinanza nello spazio e nel tempo; concetto che, a sua volta, non comporta di necessità il superamento della diversità, della differenziazione e, in ultima analisi, la discontinuità.
Non è qui il caso di soffermarsi su astratte considerazioni circa il rapporto dialettico fra continuità-discontinuità di cui si sostanzierebbe qualsiasi processo autenticamente educativo; si vuole più semplicemente sottolineare la necessità di distinguere fra una discontinuità frutto di una logica che ha governato dall’esterno il sistema di istruzione, determinando storicamente l’attuale situazione di segmentazione, da quella che, dall’interno, sul versante delle strategie didattiche, a tutti i livelli di scolarizzazione, dovrebbe presiedere ai processi di insegnamento-apprendimento. Non v’è dubbio che una concezione dinamica di questo processo implichi – per dirla in termini molto generali – la necessità di adeguare e di ristrutturare continuamente l’itinerario educativo: un processo discontinuo, quindi, con un inizio e molte direzioni possibili, soprattutto rispetto agli obiettivi e ai contenuti dei traguardi intermedi e a breve termine. Ma operare nella logica della discontinuità, sul piano della didattica, è possibile solo all’interno di un sistema in cui siano chiari i presupposti culturali di riferimento e ben identificate le condizioni in base alle quali si predispongono gli interventi i cui esiti determinano le transizioni da un segmento ad un altro segmento del percorso formativo.
Sono queste, a nostro parere, le condizioni che consentono di dare continuità all’azione formativa, a partire dal riconoscimento degli elementi di discontinuità che caratterizzano necessariamente lo stesso processo formativo. Se ciò vale in generale, ci sembra che a maggior ragione queste due condizioni debbano applicarsi nella scuola di base, e particolarmente a quel livello, la scuola materna, che come si è ricordato sopra costituisce l’anello strutturalmente più debole dell’intero sistema, pur coincidendo, sotto il profilo dello sviluppo individuale degli allievi, con un momento di grande potenzialità e dinamicità nei processi.
Consapevolezza linguistica e continuità nella scuola di base
I numerosi interventi che hanno affrontato il tema della continuità educativa nella scuola di base, hanno costantemente individuato nella scuola dell’infanzia – e nella materna in particolare – il primo e, per certi aspetti, più importante segmento di tale scuola. Per alcuni anzi è necessario sottolineare con forza i concetti di scuola di base e di educazione di base come quelli che consentono di eliminare definitivamente quel modello custodialistico-assistenziale che a lungo si è accompagnato all’immagine stessa della scuola materna.
In questa prospettiva il significato di educazione di base si esplicita non tanto e non solo sul piano istituzionale, quanto per due aspetti che assumono grande rilevanza in ordine agli esiti educativi. Educazione di base in quanto destinata a tutti e pertanto luogo di esperienze formative comuni; ma educazione di base anche e soprattutto in quanto si tratta di quella fase dell’acquisizione delle strategie e delle competenze attraverso le quali si pongono le basi, appunto, per ogni ulteriore elaborazione e sviluppo delle conoscenze.
È soprattutto questo secondo aspetto a giustificare la continuità educativa. Questa va ricercata prima che nell’individuazione delle finalità proprie della scuola di base e di ciascuno dei suoi segmenti e nei possibili e necessari raccordi che devono intervenire fra questi ultimi, nella conoscenza degli aspetti cognitivi (oltre che di quelli affettivi e sociali) che definiscono lo sviluppo del bambino non come fatto naturale e spontaneo, ma come processo che interagisce in forme complesse con la trasmissione e l’elaborazione della conoscenza mediate dall’ambiente socioculturale e dalle istituzioni educative. Da questo punto di vista, l’età fra i cinque e i sette anni sembra costituire un tempo in qualche misura privilegiato e fortemente compatto per la elaborazione concettuale delle conoscenze veicolate dai sistemi di codificazione delle informazioni, propri della cultura: primo fra tutti il linguaggio.
Esistono numerosi studi sul contributo della prima scolarizzazione alla strutturazione dei processi cognitivi (Vygotsky, Bruner, Olson, Donaldson, Ferreiro e Teberosky e altri ancora). Partendo da prospettive talvolta anche molto diverse fra loro e con accentuazioni differenti, le conclusioni cui sono concordemente giunti tutti gli autori sono che la scolarizzazione, principalmente attraverso il processo di alfabetizzazione, privilegiando in modo sistematico un uso decontestualizzato della lingua, contribuisce in modo determinante alla formazione di un pensiero esso stesso in qualche modo decontestualizzato, ossia svincolato dalle conoscenze ricavabili attraverso la percezione della realtà sensibile che ci circonda. Ne consegue che l’esperienza linguistica sembra assumere una funzione critica nel processo di concettualizzazione, proponendosi allo stesso tempo come strumento pervasivo della totalità degli assi formativi che danno spessore teorico e concretezza didattica alla continuità del processo educativo nella scuola di base.
Ma l’esperienza linguistica non si esaurisce nell’uso della lingua. Con la dimensione comunicativa, come è stato giustamente sottolineato da M. Donaldson e da altri, il bambino veicola un pensiero diretto verso l’esterno, verso il mondo reale, ricco di significati, ma anche carico di suggestioni immediate e pertanto mutevole. Per integrarsi con successo in un sistema educativo, i cui contenuti sono prevalentemente veicolati dal linguaggio, egli deve imparare a dirigere il proprio pensiero verso l’interno, in maniera riflessiva; deve imparare cioè non solo a parlare, ma a riflettere sui propri mezzi espressivi.
In altre parole, il sistema concettuale del bambino deve espandersi nella direzione di una crescente abilità oltre che a rappresentare se stesso in un contesto di interazioni possibili, anche a manipolare i simboli. E poiché il principale sistema di simboli al quale i bambini di età prescolare, non ancora alfabetizzati, hanno accesso è costituito dalla lingua orale, il primo passo consiste nel concettualizzare la lingua, ossia divenire consapevoli della sua struttura separata, liberandola dalla sua inclusione negli avvenimenti. È pertanto nella direzione della consapevolezza linguistica che il bambino si gioca una parte non piccola delle proprie competenze cognitive. E se su questo cammino nella scuola materna sono stati mossi alcuni passi essenziali, ciò costituisce un indubbio vantaggio all’inizio della scolarizzazione dell’obbligo.
Alfabetizzazione e apprendimento della lingua scritta
L’interesse per la lingua scritta e per le modalità con cui essa viene appresa nella prima fase di scolarizzazione ha assunto una rilevanza del tutto particolare. Ciò si deve a molteplici fattori, di cui due sembrano assumere particolare rilevanza. Il primo può essere messo in relazione ad un nuovo e più complesso significato che lo stesso concetto di alfabetizzazione ha assunto nella scuola di base, come risposta alla più estesa ed articolata richiesta di alfabetizzazione culturale di cui è stata investita. In questo senso il concetto di alfabetizzazione è stato dilatato fino a coincidere con le finalità stesse della istruzione primaria (e non solo di questa) e quindi con la totalità dell’impegno pedagogico e dell’attività didattica propri di questa scuola. Alfabetizzazione è diventato sinonimo allo stesso tempo di apprendimento organizzato razionalmente e in maniera sistematica, riferito ad una molteplicità di competenze cognitive; di lettura dell’ambiente e delle sue diverse dimensioni: naturale, scientifica, tecnologica, culturale e sociale; di comprensione e padronanza di una pluralità di codici e di linguaggi necessari per decifrare una realtà complessa, caratterizzata dalla varietà dei messaggi e dei media. Così inteso, il concetto di alfabetizzazione, che finisce per coincidere con quello stesso di scolarizzazione, rimanda in maniera esplicita e necessaria alla lingua scritta, non come ad un omologo o semplice trascrizione della lingua parlata; e nemmeno come a semplice supporto o veicolo di conoscenze, bensì come ad oggetto culturale e, allo stesso tempo, strumento che consente una presa di distanza dal mondo frammentato dell’esperienza contingente ed immediata, necessaria per una elaborazione concettuale della conoscenza. Questo è, in effetti, il compito primario della scuola.
Il secondo fattore che ha contribuito non poco a mettere a fuoco la centralità della lingua scritta, nella più ampia problematica della educazione linguistica, scaturisce dal riconoscimento che il sistema di letto-scrittura, nella nostra cultura alfabetizzata, molto prima di costituire uno strumento di conoscenza, è oggetto di una complessa ed articolata elaborazione concettuale. In altre parole, prima ancora di conseguire, mediante l’istruzione, le competenze formali del leggere e dello scrivere, il bambino prescolare è in grado di riflettere e di formulare ipotesi sulle caratteristiche proprie del segno scritto, nonché di utilizzare un’ampia gamma di riferimenti extratestuali per la loro interpretazione. È in questa attività, naturale e spontanea, che si trovano le tappe della preistoria della lingua scritta con le quali l’insegnamento formale del leggere e dello scrivere è chiamato a misurarsi. Comprendere ed utilizzare il linguaggio scritto come sistema di “regole” è capacità separata dalla competenza formale di leggere e scrivere e non può essere confusa con questa. Allo stesso modo il bambino si comporta nei confronti del linguaggio parlato per cui, accanto alla competenza linguistica, ossia la capacità di capire e produrre enunciati, sviluppa precocemente una competenza metalinguistica, intesa come capacità di riflettere su questi ultimi come “oggetti” di conoscenza. È soprattutto lo sviluppo della capacità metalinguistica a marcare quello della rappresentazione di ciò che il bambino effettivamente conosce in fatto di linguaggio, più che la sua capacità linguistica strumentale.
Fino a che punto questa prospettiva ha influenzato la didattica dell’insegnamento-apprendimento della lingua scritta nella scuola elementare? Fino a che punto, invece, l’attenzione degli insegnanti rimane centrata prevalentemente, se non esclusivamente, sul “metodo” più efficace, mostrando in tal modo di confondere metodo di insegnamento e processi di apprendimento?
Oltre cinquant’anni fa, Vygotskij sosteneva che insegnare ai bambini a tracciare lettere e farne delle parole non significa insegnare loro la lingua scritta, così come concentrare l’attenzione esclusivamente sui meccanismi della lettura equivale perdere di vista il significato della lingua scritta in quanto tale. Quella di Vygotskij è una chiara presa di posizione contro la possibilità che un apprendimento complesso come quello della lingua scritta possa essere raggiunto attraverso pratiche d’insegnamento – qualunque esse siano – che prescindono dall’intera storia evolutiva attraverso cui il bambino arriva a padroneggiare il sistema. Da allora, tuttavia, nella pratica pedagogica, il problema del metodo è stato a lungo (ed è tuttora) un nodo centrale della didattica, perlomeno quella ufficiale e ministeriale, anche se da tempo è ormai chiara sia l’artificiosità della distinzione fra metodi analitici e sintetici, sia l’impossibilità di attribuire in maniera sicura all’uno piuttosto che all’altro le prestazioni migliori. Su questi due ultimi aspetti sembrerebbero concordare anche i Programmi del 1985 che, nel porre sullo stesso piano le diverse tendenze metodologiche sostengono che entrambe possiedono una loro efficacia didattica. In realtà le cose stanno in modo assai diverso. A parte il fatto che quasi la metà del paragrafo che i Programmi dedicano alla “Lingua scritta” è occupato da questioni relative al metodo, il lettore si trova di fronte ad una palese contraddizione: mentre infatti da un lato si dichiara la piena libertà nella scelta del metodo, dall’altro le “indicazioni didattiche” sottendono tutte, in maniera assertiva e senza alcuna giustificazione teorica, scelte che attengono ad un particolare metodo sintetico: quello fonico. La centralità del metodo, come filosofia, viene pertanto riproposta: poco importa se al metodo globale «naturale», implicitamente suggerito dai vecchi programmi Ermini, viene sostituito un metodo sintetico. La filosofia è la stessa. Al di là dei metodi, il riferimento è ad una teoria (o, forse più semplicemente, ad una cultura magistrale) per la quale apprendere a leggere e scrivere significa apprendere prima il meccanismo, lo strumento attraverso il quale l’oralità si trasforma in scrittura, e dopo, solo dopo è possibile accedere alla comprensione e alla produzione, cioè all’uso della lingua scritta. Si tratta, in ultima analisi, di una concezione semplificata dell’alfabetismo, in cui oralità e scrittura non solo sono pensate come due entità separate, ma la seconda è ridotta a strumento della prima e il suo apprendimento una semplice tecnica.
Come conclusione: nel definire il significato della continuità nella scuola di base è quanto mai necessario reinterrogarsi sulla funzione e soprattutto sui contenuti e sugli obiettivi della scuola materna. È stato detto che questa scuola, anche dopo il recente interesse, legato soprattutto ai nuovi Orientamenti, rimane pur sempre instabile e senza futuro. Si tratta in effetti di una instabilità strutturale che priva questo segmento formativo di caratteristiche e peculiarità proprie, sia pure in una dimensione di grande flessibilità organizzativa e aperta ad una molteplicità di soluzioni possibili. Tutto ciò fa sì che essa rimanga, di fatto, la scuola che viene prima della vera scuola. Ma è soprattutto la mancanza di un disegno formativo esplicito, e più ancora il persistere di una sostanziale instabilità curricolare, che impedisce alla scuola materna di essere scuola senz’altro aggettivo. Scuola in quanto in grado di promuovere e perseguire in modo consapevole e sistematico non solo esplicite e fondate finalità formative (affettive, sociali, morali), ma anche obiettivi cognitivi coerenti e rispettosi delle strategie di elaborazione dei processi culturali dei piccoli allievi, oltre che colmare insufficienze ed eliminare, o perlomeno ridurre, lo svantaggio precoce, premessa di sicuro quanto inevitabile insuccesso nei successivi apprendimenti. Ci sembra infine perfettamente coerente con questo modello di scuola quanto Visalberghi afferma circa il rapporto fra carattere globale – proprio di tutte le realtà educative – e profitto che dalla scuola (da tutte le scuole) l’allievo deve ricavare. Dice Visalberghi: “Per quanto problematico ne sia l’accertamento, per quanto unilaterale possa riuscire il limitarsi a verificare solo o prevalentemente risultati di tipo cognitivo, va riconosciuto che il profitto scolastico dei singoli allievi costituisce la variabile dipendente più importante dei processi formativi. Svalutarla […] a causa dell’importanza di altre variabili […] rappresenta un gravissimo errore, una forma di evasione o fuga di fronte alla realtà” (A. Visalberghi, Insegnare ed apprendere. Un approccio evolutivo, Firenze, La Nuova Italia, 1988, p.105).
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