Le accuse che spesso e da varie parti vengono rivolte alla scuola di mortificare il piacere della lettura fra i giovani mi sembrano, da qualche tempo in qua, ancora più ingiuste e ingiustificate. Chi avanza tali accuse il più delle volte non ha contatti continuativi e sistematici con l’universo giovanile oppure ne conosce bene solo una porzione tutto sommato ristretta, la più fortunata e privilegiata, che non può costituire un campione rappresentativo della globalità. Per chi, come gli insegnanti, si trova immerso ogni giorno in mezzo ai giovani di oggi e al loro modo di vivere, certe affermazioni di tipo “pedagogico”, caratterizzate da una sorta di libertarismo anti-istituzionale, che vengono fatte proprie anche da una parte dei genitori, suonano come facili semplificazioni, come slogan del tutto inadeguati a cogliere la reale complessità della questione.
Cercherò, allora, di esporre alcune riflessioni che sto facendo negli ultimi tempi attorno alla lettura di libri di narrativa nella scuola: lettura che sembra la cosa più ovvia, normale e naturale, in varia misura prevista dagli stessi programmi, del cui valore didattico-pedagogico complessivo proprio per questo si rischia di non avere sempre piena consapevolezza. Spero di chiarire come sia riduttivo, oltre che fuorviante, pensare che se la scuola smettesse di richiedere agli studenti di “lavorare” sui libri di narrativa che leggono, nei giovani si svilupperebbe sempre di più l’amore e l’affezione per la lettura.
I rischi delle semplificazioni
Una prima serie di considerazioni prende le mosse dalle caratteristiche dei giovani di oggi, della loro mentalità e “impostazione culturale” assorbita dall’ambiente circostante, fattori che vanno ben al di là della questione della lettura di libri di narrativa in sé e per sé. Un numero sempre maggiore di studenti rivela una notevole difficoltà di fronte alle concatenazioni concettuali di una certa estensione, si tratti di seguirle quando sono presenti in un testo scritto (o nelle parole di qualcuno) o di produrle quando si presenta la necessità di elaborare un contenuto di comunicazione che non sia elementare, privo di articolazioni e di interconnessioni al proprio interno.
Si badi bene: non si tratta solo della difficoltà di dare espressione linguistica adeguata a un “pensiero” che, però, in qualche modo c’è. Il problema è molto più radicale: siamo di fronte a una sempre più diffusa disabitudine (che diventa ben presto vera e propria incapacità) a pensare in modo complesso e articolato, a scomporre i fenomeni, di qualunque genere siano, nei fattori che li costituiscono e a rintracciare la rete delle interrelazioni che si instaurano con altri fenomeni e fra i fattori costitutivi. É come se fra i giovani si stesse consolidando uno schema mentale elementare, buono per tutte le situazioni, che può essere così ricostruito nelle sue linee essenziali: ogni fenomeno è una cosa a sé stante, senza relazioni con altri fenomeni; ogni fenomeno consiste di un solo fattore; ogni fenomeno ha una sola causa e richiede, eventualmente, una soluzione concepita a sua volta come a sé stante rispetto a quelle date in risposta ad altri fenomeni problematici.
Da dove proviene questa incapacità ad avere visioni integrate d’insieme? Quali sono le cause di questa disabitudine a cogliere le interdipendenze, a qualsiasi livello di complessità? A mio parere non poco incide il fatto che, proprio mentre i problemi diventano sempre più complessi, e quindi oggettivamente più difficili da “dominare” sul piano conoscitivo, il modo prevalente di affrontarli, di parlarne da parte dei mezzi di comunicazione più seguiti, è sempre più frammentario, parziale e, in nome della spettacolarità, angustamente emotivo, ad effetto: «In trenta secondi, ci dica»- si chiede all’esperto di turno- «che cosa possiamo fare per risolvere il problema degli extracomunitari?».
La mia impressione è che questo stile si stia insinuando anche nella scuola, che invece dovrebbe avere il compito istituzionale di formare cittadini, vale a dire persone capaci di “dominare” i problemi del vivere associato grazie all’acquisizione del maggior numero possibile di conoscenze e categorie di pensiero organicamente strutturate.
Ebbene, testi di narrativa scelti con intelligenza secondo un percorso progressivo possono costituire la palestra ideale per far acquisire agli studenti la capacità di “visioni d’insieme”, e di dominare concatenazioni concettuali via via più complesse. Si tenga conto che, alla natura stessa della narrazione, che si configura come sequenza di eventi fra loro concatenati e interdipendenti, si aggiunge un altro elemento facilitante: quel rapporto “affettivo” con i contenuti (personaggi e situazioni) che rappresenta un incentivo formidabile e che difficilmente si verifica nei confronti di altri argomenti.
Alla luce di quanto ho detto la constatazione che per molti studenti (anche del biennio e del triennio) risulta difficile, se non impossibile, dominare la trama di un racconto o di un romanzo in tutti i suoi risvolti assume il carattere di una spia preoccupante di una disaffezione che, prima ancora di investire i libri di narrativa e il piacere di leggere, investe più in profondità il gusto e il piacere di pensare davvero.
Non è vero che la scuola mortifica l’amore per la lettura, per il semplice motivo che questo amore, allo “stato brado”, il più delle volte non c’è. La scuola, in realtà, sta compiendo uno sforzo gigantesco per suscitarlo in giovani che non sentono il bisogno della lettura (neppure come passatempo, per sfuggire alla noia) e che in ogni caso, da soli, a parte eccezioni sempre più rare, non hanno una sufficiente strumentazione per fare della lettura una attività abituale, per diventare frequentatori di librerie. Oggi più che mai la scuola è chiamata a insegnare a leggere, e l’editoria più intelligente sta dando un prezioso contributo in tal senso.
L’universo narrativo e l’immaginazione verbale
E qui si inserisce il secondo ordine di considerazioni. Sarebbe ingiusto, infatti, ridurre la narrativa a “palestra”, sia pure di fondamentale importanza. Quando si legge un racconto o un romanzo, fra le altre cose viene messa in moto la cosiddetta “immaginazione verbale”, grazie alla quale alle parole tipografiche vengono fatte corrispondere delle immagini mentali: il testo è un copione che l’immaginazione verbale, per così dire, mette in scena. É un processo che, evidentemente, ha a che fare con la sfera della fantasia, della creatività. Io credo che in molti casi le accuse nei confronti della scuola abbiano origine proprio da un equivoco sulla natura della fruizione fantastica di un testo di narrativa.
Alcuni indirizzi culturali e pedagogici, che trovano consensi un po’ ovunque per il fascino che spesso esercitano gli appelli a una indeterminata libertà, ritengono che quando si entra nel regno della fantasia e della creatività non ci possano essere regole, metodi, indicazioni su come muoversi all’interno dei suoi confini. Tutto sgorgherebbe da una sola sorgente: la spontaneità, l’ingenua casualità. Anche per la lettura: tutto quanto si aggiunge a una fruizione “aurorale” di un testo di narrativa non può che essere inutile appesantimento che rovina l’esperienza in atto. Io non credo che sia così. Anche dalle “lezioni americane” di Umberto Eco, per quanto è possibile saperne nel momento in cui scrivo, risulta proprio il contrario. Conoscere i meccanismi di una narrazione non può che alimentare e potenziare la nostra immaginazione verbale, consentirle di esprimere tutta la sua forza, dal quadro d’insieme al dettaglio e viceversa.
Mi limito a un solo esempio. Distinzioni come quella fra autore e narratore o fra io narrante e io narrato possono essere proposte come puro e semplice esercizio di catalogazione, fine a se stesso e discutibile. Ma possono essere anche impalcature di una costruzione fantastica.
Se io rifletto sul fatto che, nell’universo immaginario della Coscienza di Zeno, chi scrive non è lo scrittore triestino, ma un simpatico nevrotico in terapia da uno psicoanalista, che scrive avendo come destinatario quest’ultimo, che ha incontenibili propensioni alla menzogna e che, quindi, ci sono buone probabilità che l’io narrato venga deformato a proprio piacimento dall’io narrante, allora nella mia mente non si forma più l’immagine di Italo Svevo (la famosa foto), ma quella, molto precisa e “ad alta definizione”, e solo mia, di uno Zeno dal viso magro e arguto, che scrive e scrive con un sorrisetto ironico sulle labbra e un guizzo quasi beffardo negli occhi.
Io sono convinto che fantasia e immaginazione, ingredienti base della creatività nella lettura, abbiano bisogno di “formarsi” (di prendere forma) attraverso un processo educativo-cognitivo come ogni altra facoltà umana, ad esempio il linguaggio. Come esistono una grammatica e una sintassi della lingua, la cui conoscenza permette di parlare, scrivere, ascoltare e leggere meglio, esistono anche una grammatica e una sintassi del narrare la cui conoscenza permette di “leggere” meglio, cioè di attivare tutte le potenzialità fantastico-immaginative di cui si sostanzia il rapporto fra lettore e testo di narrativa.
Ben venga, allora, tutto quanto costituisce uno strumento che aiuti a entrare in quel “mondo possibile” che, trasmesso dai caratteri tipografici, può continuare a vivere solo se ci sono dei lettori che lo ricostruiscono ogni volta nel proprio immaginario personale, nel consapevole rispetto delle regole del patto narrativo.
Ma questo problema del rapporto fra le regole della costruzione dell’universo narrativo e quella della rappresentazione attraverso l’immaginazione verbale è un problema di grande portata, anche sul piano pedagogico e didattico, perché si innesta su quello della conservazione o della perdita di un aspetto della cultura così come da secoli la concepiamo. E, io almeno, ho bisogno di rifletterci ancora.